Premio Noi Insieme 2020 – I racconti di: San Bonifacio, San Severo, Santena, Termoli, Torremaggiore e Varese

 

Sabato 25 ottobre è stato assegnato il Premio Noi Insieme 2020, sul tema “Parole, Pensieri ed Emozioni al tempo del coronavirus”:

1° posto: “Il caso” di Marisa Cavalli – AVO BELLANO
2° posto: “Una sera sono venuti a prendermi” di M. Giovanna Domenichini – AVO LUCCA
3° posto: ”Negli occhi di Camilla” di M. Antonietta Puggioni – AVO SASSARI – “Il nuovo condominio” di Simona Bevione – AVO TORINO

I racconti vincitori sono stati pubblicati nei giorni scorsi. Vi proponiamo tutti i racconti che non si sono classificati nei primi tre posti, finendo con San Bonifacio, San Severo, Santena, Termoli, Torremaggiore e Varese.

 

UN’ESPERIENZA STRAORDINARIA (di Federica Ferrarese – AVO San Bonifacio)

21 febbraio 2020.
Data che ricorderemo, qui in Veneto, come il suono di sirena tipico di tanti film sull’ultimo conflitto mondiale, quella del coprifuoco, quando ciascuno di noi, dapprima incredulo, poi spaventato si metteva a camminare veloce e poi a correre verso ripari più o meno organizzati, con mezzi più o meno adeguati, in tempi diversi e spesso contraddittori, il tutto nell’intento di seguire direttive che provenivano da fonti diverse e tutte ugualmente autorevoli .
La mia esperienza del Covid è stata vissuta in prima linea: sono Coordinatrice di un reparto di Geriatria di un Ospedale veneto, che ha assistito pazienti anziani anche positivi in quei mesi di chiusura, che è stata compagna di tanti timori per un nemico ancora sconosciuto ma capace di colpire alle spalle, in modo subdolo e con effetti tanto devastanti…
L’ordine di sospendere il servizio di volontariato è arrivato immediatamente dalla Presidenza Regionale AVO e da allora l’Ospedale ai volontari fa giustamente ancora paura.
Avevamo, tra i tanti pazienti, una signora molto seguita dalle volontarie AVO, alla quale con grande pazienza gli operatori sanitari hanno dovuto spiegare il motivo della loro assenza in quel periodo così difficile… poi anche lei, a distanza di circa un mese, ha ceduto sotto la pressione del Corona virus e il dispiacere è stato indicibile per tutti i volontari.
Già, vivere quei giorni così burrascosi ha ricordato molto, nei toni, nelle decisioni, nelle azioni, il periodo bellico, se pure con evidenti differenze. Cadevano i pazienti che venivano ricoverati, qualcuno guariva, altri venivano trasferiti altrove, e cadevano gli operatori sanitari, medici e infermieri, che, sottoposti a incessanti tamponi, interrompevano improvvisamente il servizio a causa della loro positività.
In tutto questo rincorrersi di fatti, di notizie, di numeri, che molto assomigliavano ad un “bollettino di guerra” quotidiano, è emersa una esperienza nuova per la sua particolarità.
Qualche mese prima, avevo avuto la possibilità, assieme ad un’altra volontaria AVO, di partecipare ad un corso per “Ministri della Consolazione” presso la nostra Parrocchia. E’ un corso che prepara i laici ad essere accanto alla persona morente e ai suoi famigliari, nei giorni successivi al decesso fino al funerale. Ebbene, non so perché mi sia trovata in quella situazione, ma la consapevolezza del fatto che “nulla accade per caso” è stata quanto mai forte.
Il corpo sacerdotale era stato colpito anch’esso dalla pandemia e diversi sono stati i Sacerdoti che non ce l’hanno fatta. Il Cappellano del nostro Ospedale era stato richiamato in Parrocchia, anche perché lui stesso avanti con l’età. Pertanto è accaduto che i malati che morivano in ospedale non potessero ricevere l’unzione degli infermi. La solitudine li colpiva duramente assieme alle loro famiglie.
Erano i primi di Aprile, credo, quando dalla Direzione Medica Ospedaliera ci arrivò una mail dai Sacerdoti della Parrocchia, i quali, su disposizione della Diocesi di Vicenza, davano mandato agli Operatori sanitari laici, di portare una benedizione e una preghiera ai malati morenti, in loro vece.

E così è accaduto. Dopo l’incredulità iniziale, abbiamo capito cosa si doveva fare.
Avevamo alcuni pazienti in stadio terminale, anche se non risultavano più positivi; pertanto avevamo chiamato i famigliari per assisterli nelle ultime ore di vita, tuttavia costoro, temendo per la propria incolumità, non avevano accettato di essere accanto al parente morente.
E così, terminato il servizio in corsia come operatrice sanitaria, assumevo il ruolo del volontario AVO e, assistita da alcune colleghe volenterose e sensibili, mi sono accostata a questi pazienti, con delicatezza, uno alla volta.

Era strana come sensazione, assolutamente unica: avevo in mano la Preghiera che i Sacerdoti ci avevano inviato e mi avvicinai all’orecchio del primo di loro, lo chiamai per nome e gli dissi, con un tono di voce pacato e scandendo le parole, che avremmo recitato una Preghiera per lui. Erano tutti in agonia e incapaci di rispondere, aprire gli occhi, seguire le nostre Preghiere… eppure, in ciascuno di loro, abbiamo colto un movimento, quasi un sussulto che sembrava far percepire che avessero compreso quello che stava accadendo. Questo momento così intenso per tutti i presenti, si concludeva per ciascuno di loro con una benedizione sulla fronte e una carezza sul viso.

Non so dire se queste persone abbiano realmente capito quello che stavamo facendo, ma quello che ha prodotto su di noi è stato molto forte. Non ci dicevamo praticamente nulla, uscite dalla stanza, ma gli sguardi che ci scambiavamo valevano sicuramente più delle parole. Avevamo trovato un senso nuovo al servizio, un lato umano e spirituale straordinario, che solo questa circostanza poteva offrire.

Mi auguro, anch’io come tutti, di non rivivere giorni simili, anche se questa dolorosa esperienza ha fatto scoprire il valore nuovo e inaspettato della dimensione spirituale e umana nell’assistenza al malato.
Faremo tesoro anche di questa esperienza, come della consapevolezza che nulla è assoluto e definitivo: possiamo trovarci a dover assolvere servizi a cui non avevamo pensato prima, ma che, seppur nuovi nella forma, mantengono la sostanza di cui sono fatti, quella dell’amore gratuito al prossimo, fondamento della scoperta dell’ “essere una buona vanga, perché il vangatore è un altro” (E.Longhini).

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IL COVID LEZIONE DI VITA (di Lucia Fantasia – AVO San Severo)

Mai avrei immaginato di vivere una pandemia!
Eppure è successo, all’improvviso, da un giorno all’altro, stravolgendo le nostre vite, abitudini, interessi, sicurezze.
All’inizio ero incredula, ma la consapevolezza e la gravità di ciò che il fato ci stava riservando sono apparse subito evidenti. Sono una persona molto attiva, con mille cose da fare, abituata alla mia libertà d’azione e quella restrizione forzata mi è pesata, e non poco. Rivedere tutte le tappe della giornata, rinunciare al servizio AVO in Ospedale, annullare ogni iniziativa, non poter incontrare gli affetti, gli amici. Decisamente troppo!!
Tempo due giorni e tutto ha acquisito una nuova dimensione: riscoprire con calma tante cose trascurate per mancanza di tempo, come la mia passione per la musica, per i libri; rivedere dopo anni gli episodi del tenente Colombo; le lunghe telefonate con gli amici e con i volontari più anziani e soli; la riscoperta di un cugino lontano che non sentivo da oltre 50 anni! E ancora, i gesti di solidarietà e di aiuto con i vicini, i legami umani che acquisivano nuova linfa e valenza.
Ad ogni Telegiornale, però, ritornava prepotente la dura realtà del contagio dilagante, delle centinaia di morti. Dio mio, quelle bare! Chi potrà mai dimenticare!
San Severo deserta e spettrale, tante persone decedute da sole per il virus e altre malattie, portate in fretta e furia al cimitero e tanto tanto dolore!
Che lezione di vita ci ha dato il covid!
L’evidenza della nostra caducità, della nostra fragilità, ma anche l’esplosione di tanta solidarietà, di tanto prodigarsi per i deboli e per gli ultimi, con la consapevolezza che i veri valori non vengono mai meno in qualsivoglia frangente, anzi si rinsaldano in un anelito di speranza per il futuro.

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SUL FINIRE DELL’INVERNO… (Realizzato a più mani dai volontari AVO Santena e assemblato dalla volontaria Antonietta Cappellazzo)

Era il 31 dicembre del 2019 e si festeggiava l’anno nuovo nelle famiglie, con gli amici in tutta spensieratezza; a mezzanotte ci si scambiava gli auguri di un buon nuovo anno pieno di serenità e di salute e invece…sul finire dell’inverno, all’improvviso, le vite delle persone hanno avuto un brusco cambiamento.
Si è dovuto affrontare un evento drammatico che mai si sarebbe immaginato: una pandemia portata da un virus arrivato da lontano, che viaggiava veloce perché saliva e scendeva con la gente dagli aerei! Aveva un nome innocuo, coronavirus, inizialmente neanche così inquietante, ma si è dimostrato spietato.
Il COVID…che paralizza tutto! L’incredulità, la paura. L’ordine perentorio è: rimanete a casa!
Il distanziamento sociale impone la lontananza dai propri affetti, dai figli, dai genitori, dai parenti, dagli amici, dai colleghi; tutto il tessuto sociale, che è fondamentale per la vita degli esseri umani, sembra disintegrarsi. Ognuno vive una sua propria privazione, una sua propria paura.
Si passano quei lunghi momenti di lockdown all’inizio entrando in un totale sconforto al pensiero di non poter fare quello che piace e di non potere vedere le persone che si amano. Poi, un po’ alla volta, si scopre un altro modo di vivere: ci si organizza, si programma la giornata e si fanno cose che erano state tralasciate, come sistemare e riordinare armadi e scarpiere, fare il pane, darsi al giardinaggio, alla lettura. Si impara ad essere più riflessivi, più introspettivi e meno frivoli, si impara ad essere più essenziali. Si scopre quanto è bella la calma, il dialogo, la riflessione, la pace.
Per tutelare la salute propria e quella degli altri, la situazione impone di mantenere le distanze, il contatto fisico è bandito. E’ precluso, quindi, anche varcare le “porte amiche” delle case di riposo dove vivono gli anziani a cui si fa compagnia quotidianamente da anni. Ad ogni volontario è capitato alcune volte di doversi assentare dal proprio servizio per un certo periodo, ma sapeva che l’AVO di Santena andava avanti e che altri volontari erano accanto agli anziani.
E’ bastato questo tremendo nemico invisibile a stravolgere la vita del volontariato e quella degli amici anziani residenti nelle RSA.
Gli anziani sono stati privati dei legami di profonda empatia, talvolta di amicizia, che si erano instaurati con i volontari.
Questa chiusura è stata come uno strappo su una tovaglia preziosa e cara, usata per condividere momenti di festa, di serenità, di ascolto, di scambio di emozioni.
Si pensava che tutto potesse risolversi in poco tempo e, invece, chissà per quanto non si potrà offrire il servizio agli ospiti delle case di riposo.
Ci vogliono coraggio e saggezza per affrontare queste difficoltà, non il coraggio di chi deve affrontare un nemico visibile, ma un diverso tipo di coraggio, quello della coesione e della costanza. In questo momento, in cui non ci si può donare agli altri in maniera diretta, è fondamentale tenersi uniti, anche se solo virtualmente, mantenendo un contatto energetico per non disperdere le forze. I volontari devono diventare abili ricamatori per intrecciare trama e ordito, per rammendare lo strappo avvenuto nelle vite. Se si sarà bravi, resterà solo un segno indelebile a perenne ricordo e si potrà di nuovo utilizzare la “tovaglia” per tornare a vivere.
Ogni volontario dovrà usare la propria sensibilità e la propria esperienza, strumenti del patrimonio umano e associativo. Il lavoro di rammendo è iniziato il 2 luglio con il primo incontro dal vivo fra volontari, in un prato del parco Cavour di Santena, dove ognuno ha comunicato agli altri il proprio dolore, lo smarrimento, la propria delusione, le paure, i timori, le richieste di aiuto, ma anche la speranza, la gioia e l’emozione di ritrovarsi, di essere di nuovo insieme.
Il virus non ci deve isolare e di fatto un’energia rigeneratrice si sta diffondendo.
Sono già avviati alcuni progetti che puntano all’unità, in modo che la normalità, quando ritornerà, e come sempre ritornerà, ci trovi pronti ad offrire conforto agli anziani, dai quali ancora tanto si deve imparare e ai quali ancora tanto si può dare. Così è nato un progetto di lettura dello stesso libro, scelto insieme ma attuato da ciascuno a casa propria, per poi discuterne il mese successivo in un nuovo incontro. Un secondo progetto sarà costituito da un percorso guidato per costruire e far crescere in noi una particolare sensibilità, che ci stimoli a comunicare con il cuore, con l’immaginazione, con il respiro. Un altro progetto sarà la costruzione di una mappa dei desideri, un vero e proprio tabellone permanente dove tutti i volontari possano scrivere, disegnare, riportare i loro desideri sulle attività AVO da realizzare. Allo stesso tempo piccoli passi si sono fatti nell’attività di volontariato domiciliare. E’ stata emozionante l’esperienza di una nostra volontaria che è andata a fare visita ad un signore molto provato dalla malattia: tra loro si è creata un’energia sottile di conforto e sostegno.
È proprio vero che a volte è più facile confidarsi con persone estranee, ma disponibili all’ascolto, forse per paura o pudore di far soffrire chi ci è accanto ogni giorno! La volontaria è uscita da questa esperienza con le ali ai piedi, sentendosi rinata per avere ricominciato la mission di volontariato nel domiciliare.
Non tutti possiamo fare grandi cose, ma possiamo fare piccole cose con grande amore

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QUOTIDIANITA’ DI UNA PANDEMIA (di Bice Monaco – AVO Termoli)

Restate a casa e andrà tutto bene”, il mantra che ci sentiamo ripetere in questi giorni. La pandemia ci costringe a ritmi lenti, inconsueti, a riorganizzare le giornate; ci ha restituito finalmente a rapporti umani, famiglia, amici, colleghi. Anche la commessa del piccolo minimarket vicino casa diventa familiare in pochi giorni; ha imparato i gusti di ogni cliente in fatto di salumi, formaggi, ortofrutta. Perfino sul pane ognuno esprime preferenze: ben cotto, più basso, di grano duro o tenero, integrale, con lievito. Incuranti di chi aspetta fuori, consumiamo tutto il tempo disponibile. Il virus ci ha ridato i momenti che avevamo tolto a noi stessi. Sperimentiamo modi e maniere per fare tesoro di questo periodo, senza sprechi. Si impasta, si frigge, si cucina. Casa mia, insolitamente, si riempie di odori stuzzicanti; la tavola ben apparecchiata a pranzo e cena, pasti completi perfino di macedonia e dolce; l’immancabile ciambella allo yogurt per colazione e il vasetto di marmellata di fragole, anche quella home-made. Le fragranze stemperano gli odori dei disinfettanti; ipocloriti passati e risciacquati su superfici e pavimenti, mai così puliti e detersi. Con i dirimpettai, curiosi e scostanti fino a ieri, siamo ben disposti a conversare sul pianerottolo. A distanza di sicurezza, ovviamente. Così ho conosciuto Gino e Maria Giovanna che, nelle mattine assolate, vedo passeggiare nel cortiletto sul retro, mano nella mano. E Antonio, che incrocio sempre frettolosamente per le scale. Appena un cenno di saluto con il capo. Ora abbiamo tempo per parlare.

Mi racconta Maria Giovanna che hanno lavorato sodo loro due, lei con una ditta di pulizie condominiali e Gino come muratore. Era molto apprezzato e richiesto, precisa orgogliosa guardandolo negli occhi con complicità, alla ricerca di una conferma che sa di non poter ricevere. A vederli colpisce la tenerezza disarmante del sorriso di lei. Gino rimane in silenzio tutto il tempo, lo sguardo attonito e smarrito, la pelle lucida e tirata, gli occhi persi oltre la strada, chissà dove. Sono sposati da 53 anni, due figli e una nipote. Uniti non solo dall’amore ma da pazienza, coraggio, rispetto e sostegno reciproco. E ce ne vuole tanto di sostegno, soprattutto con l’avanzare degli anni e dei malanni. Tristezza nei suoi occhi. Li vedo allontanarsi. Maria Giovanna guarda Gino, gli aggiusta il bavero del giubbotto e quel ciuffo bianco sulla fronte, scomposto da un alito di vento. Lo prende per mano e lo conduce verso casa, quella che si è costruita lui, con quelle mani, ma questo Gino non lo ricorda più.

Antonio, invece, era un portalettere. E’ andato in pensione due anni fa. Ora ha 59 anni. Un cancro gli ha portato via in poco tempo la moglie, sola in un letto di ospedale. Ha dovuto radunare le sue forze e rattopparsi l’anima. I due figli sono ancora universitari e non può restare fa casa, così ha ripreso a lavorare con il fratello proprietario di un’azienda agricola. Passa le giornate nei boschi a tagliare la legna da vendere in autunno. “Almeno esco” dice. In estate, conduce gli animali al pascolo e, quando è tempo, partecipa alla mietitura. Le sue mani sono diventate aride e screpolate; il viso e le braccia arsi dal sole. Le giornate sono faticose, ma lui è felice, non pensa alla sua solitudine.

Le mie giornate casalinghe si alternano a quelle lavorative. Mascherina, guanti, camice antitraspirante, calzari e cuffie mi proteggono dal virus, dal contatto con le persone e dalla paura. Si disinfetta ogni stanza in cui ha soggiornato un paziente in modo maniacale, maniglie, interruttori, sedie. Non si pensa alla persona malata, che si aspetta parole confortanti, esortazioni speranzose, sorrisi gioviali, battute dette e ascoltate per stemperare la paura dei risultati. Mi manca la possibilità delle mani tese verso le loro per un aiuto e la loro stretta a raccoglierne il gesto. Così bardata cerco di comunicare con lo sguardo, di trasmettere parole dietro la visiera; loro mi restituiscono espressioni frammiste di preoccupazione e gratitudine. Come Maria che, a ogni controllo, si ostina a portarci i cannoli siciliani orgogliosamente fatti da lei, in barba a misure e restrizioni legislative. In questo periodo ciò che non può essere proibito è il calore.

Martedì pomeriggio, giornata della spesa. Fila anche all’ingresso del supermercato. Le scorte nei carrelli in uscita, a me basterebbero per settimane. Giro all’interno, nei corridoi, tra gli scaffali. Non manca nulla in questo periodo pasquale, neanche le confezioni di Colombelle di pasta frolla con la coda ricoperta di cioccolato e confettini colorati. Ricordo che le faceva anche mia madre. Da piccola immergevo il becco e poi la coda nel cioccolato fuso. Ora è sola in paese. La immagino al mattino spalancare le persiane in legno, sporgersi per fissare le ante sui ganci, allungare lo sguardo per scorgere la presenza di altri esseri umani. Le solite persone animano la piazza del borgo: l’impiegato del Comune, il funzionario dell’Ufficio Postale -aperto solo due giorni a settimana- e Giovina, che in realtà si chiama Gioia, pronta con il carrellino della spesa in attesa dell’ambulante. Gesti quotidiani, ripetuti più o meno consapevolmente. Una vita monotona, la sua, sempre uguale in ogni giorno dell’anno. Di sicuro se il tempo è bello, avrà indossato lo scialle variopinto.  A lei, la piccola e minuta sarta del paese ormai ottantenne, piacciono tanto gli indumenti colorati. L’aiutano a sopportare meglio la lontananza da figli e nipoti, la solitudine della vedovanza, i capelli ingrigiti da tempo, la maculopatia che le impedisce i passatempi di enigmistica, le dita artrosiche delle mani che non le permettono più di cucire. Quanto avevano lavorato, quelle mani. Mi manca molto e sento nell’animo quel qualcosa che non si riesce a spiegare, non si sa definire. Si può solo sentire nel profondo.

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LAVORO-VOLONTARIATO-FEDE AL TEMPO DEL COVID-19 (di Rita Gagliardi – AVO Torremaggiore)

Credo che, se prendessimo nota di fatti, pensieri ed emozioni, scelte e comportamenti e ogni tanto rileggessimo quei fogli, scopriremmo lentamente che c’è un filo che unifica le tappe della nostra vita e che ci cambia profondamente. Voglio condividere una particolare esperienza che ha suscitato in me profonde riflessioni ed emozioni. Sono convinta che alcune volte la condivisione dei nostri racconti possa essere” luce” nella nostra vita. Le esperienze raccontate sono come un dono per ciascuno di noi per farci crescere spiritualmente, per mettere in atto scelte e comportamenti espressivi che ci facciano “vivere” e non” sopravvivere”, diventare le persone che oggi siamo. Ho avuto sempre l’inclinazione a non fare le cose di fretta per arrivare subito, magari in modo strumentale, a uno scopo, ma ho cercato sempre di rapportarmi alle persone con discrezione, a piccoli passi in modo da superare le difficoltà di ogni incontro.
In questo periodo pandemico abbastanza difficile, che ha sconvolto il mondo intero, si è manifestata un’altra epidemia, quella dell’indifferenza (cit. Papa Francesco).
Sono un’infermiera e lavoro presto l’Hospice di Torremaggiore; il “filo” che unifica la mia vita mi ha portato a essere prima Ministro dell’Eucarestia, dopo volontaria dell’AVO. Prestavo il mio servizio come volontaria nelle case di riposo e come ministro dell’Eucarestia: andavo da alcuni anziani, li ascoltavo e in più portavo il viatico. Tutto questo fino a quando abbiamo subito il difficile periodo di pandemia, quando sembrava si fosse tutto fermato. Si è fermato il lavoro quotidiano per molti, si è fermata la Chiesa, il volontariato AVO e quasi tutte le attività, mentre gli infermieri e tutti gli operatori sanitari vivevano questo in silenzio e con una certa paura. Erano vietati i rapporti umani, che erano fondamentali, fare una visita a un famigliare, dare un conforto da parte dei volontari e nemmeno il sacerdote poteva entrare per la comunione e l’unzione degli infermi.
L’AVO Torremaggiore non poteva prestare più servizio nei reparti e nelle RSA, ma non sì è fermata e, vista l’emergenza iniziale perché le mascherine erano irreperibili persino per noi sanitari, che eravamo la categoria più a rischio, si è adoperata a confezionare e donare mascherine di stoffa sterilizzabili con filtro per noi dell’Hospice e per il personale del Presidio di Pronto Intervento; in seguito ci hanno fornito anche di visiere protettive che, insieme alle mascherine, ci hanno preservato da eventuali contagi.
Dopo il periodo di emergenza piano piano sono cominciate varie attività, ma noi in Hospice abbiamo sempre continuato a rispettare le linee guida del sistema sanitario: pochi accesi nelle stanze dei degenti e solo famigliari stretti.
Il dolore, l’angoscia di perdere i propri cari, la sofferenza dell’infermo sono caduti nell’indifferenza. Si può mai essere indifferenti davanti alla malattia, si può mai rispettare il distanziamento quando devi asciugare le lacrime?!
Ho lavato capelli ai pazienti e una in particolare mi ha detto con tutta la sua sincera gratitudine: “Rita ti vorrei dare un bacio… ma non si può”. Ho incrociato il suo sguardo profondo di commozione. Il pianto disperato di una nipote che vedeva morire un pezzo della sua famiglia: mi ha abbracciato d’istinto, non era consentito, ma non l’ho allontanata, mi sembrava proprio un brutto gesto. Una paziente che ci stava lasciando aveva chiesto se poteva fare la comunione; ne parlai con il parroco della chiesa che frequento e, dopo varie autorizzazioni sanitarie, sono riuscita, a tutti quei pazienti che la richiedevano, nel pieno rispetto delle norme, a dare il viatico degli infermi. Mi sono ritrovata ad avere un’altra esperienza e non vi nego che ero enormemente imbarazzata per questa decisione anche perché non volevo che questo fosse in contrasto con la mia professione. Riflettendo sono arrivata alla conclusione che non potevo dire di no. Prima però ho sondato i miei pazienti, premetto che loro avevano molta fiducia in me, come infermiera e volontaria; ho chiesto con discrezione se avessero avuto piacere di ricevere la comunione da me e loro con occhi lucidi e incredulità hanno annuito. Per ogni singolo paziente che riceve Gesù, vorrei trovare le giuste parole per descrivere l’emozione che c’è nei loro occhi: il loro viso si illumina, molti si commuovono piangendo, accogliendo il Signore con pace, serenità e con la dignità di chi è nella sofferenza con la speranza che qualcosa possa cambiare. Per me ora questa è l’essenza di essere infermiera, volontaria e ministrante e la Fede mi spinge, perché le cose vanno viste, sentite e vissute, specialmente in questo periodo di pandemia! Ognuno vive la propria vita in maniera differente, oggi vi ho raccontato le mie esperienze, non perché io sia speciale o mi spetti una gratificazione: io sono solo un mezzo. Per me è un regalo vedere un barlume di luce negli occhi di chi soffre, questo mi porta semplicemente ad amare la vita, il resto lo lascio al Signore.

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ADESSO GUARDIAMO AVANTI (di Cristina Birago – AVO Varese)

Quando tutto questo è cominciato eravamo increduli, sembrava tutto così lontano da noi. In una parte del mondo che non ci apparteneva.
Si cominciava a sussurrare: ”Ma in Ospedale non corriamo pericoli?” “ Ma no, qui da noi tutto bene”.

Io me li ricordo quegli ultimi turni in Medicina a Varese, a fine febbraio. L’ultima mano che ho stretto per salutare una coppia che tornava a casa (si stringevano ancora le mani allora), magari anche un abbraccio di conforto a qualcuno. Certo ricordo anche una terribile tosse che si sentiva provenire da una stanza. Ma proprio terribile da non entrare.

Poi, da un giorno all’altro, si è fermato tutto.
Siamo rimasti sospesi, con i nostri appunti chiusi nell’armadietto ormai inaccessibile.
Da un giorno all’altro, così come è cambiata la vita di tutti, per noi volontari è cambiata un po’ di più. Impotenza e sensazione di inutilità. Basta con la consuetudine di dare e ricevere, basta con la vita scandita anche da quel turno diventato indispensabile per tanti di noi.
Ci siamo arrotolati per mesi nell’incertezza e nel tentativo di inventare qualcosa per non perderci, perché siamo tutti amici, noi volontari Avo. Ci confrontiamo, ci scambiamo notizie, con molti ci vogliamo proprio bene. Il fine comune avvicina le persone che finiscono per assomigliarsi un po’.
Insomma sembrava di essere imballati in una scatola senza potere fare niente. Qualcuno ha proposto qualcosa, ma poi non si poteva uscire e tanti di noi e dei nostri familiari avevano paura, allora e qualcuno anche adesso.

Abbiamo aspettato, abbiamo chiesto di scriverci i pensieri di quel limbo in cui eravamo, qualcuno l’ha fatto e sono arrivate cose semplici e tenerissime. Le foto dei fiori, che quest’anno sono sbocciati prima per i fortunati con un po’ di verde intorno, e degli orti che si ha avuto più tempo per curare; i ricordi della nostra volontaria più anziana che parla di tutte le persone a cui ha trasmesso la passione e la dolcezza con cui si avvicina ai pazienti.

Però, mentre aspettavamo, abbiamo fatto sempre sapere al nostro Ospedale che eravamo pronti a rispondere alle loro richieste. E un giorno ci hanno detto che avevano un gran bisogno di un piccolo lavoro che poi si è rivelato “grande”. Così. fin quando sarà necessario, siamo lì ad accogliere le persone all’ingresso. Salutiamo, controlliamo la temperatura, sorridiamo (solo con gli occhi sopra la mascherina, ma si vede lo stesso), rassicuriamo qualcuno; abbiamo imparato dove sono tutti gli ambulatori per indirizzare le persone e … siamo tornati a sentirci utili e felici delle piccole cose che possiamo fare.

Io non ho mai avuto paura e ho sempre cercato di dare positività. Ieri nella bufera e oggi nello squarcio di sereno in cui siamo in punta di piedi.
Però tempo fa con un po’ di batticuore sono salita nel mio vecchio reparto (che è stato la zona dove i malati di Covid erano stati isolati e curati da un meraviglioso staff) per cercare l’armadietto con le nostre cose. Mi ha colpito il silenzio, la mancanza di voci: le nostre, quelle degli amici e dei parenti che portano dentro la vita. Tutto ovattato e freddo. Persone sole, che non vedono nessuno al di fuori di chi si prende cura dei loro corpi, ma che avranno un gran bisogno anche di un sorriso, di un conforto, di una chiacchiera che li distragga, di leggerezza per il loro spirito.
Noi aspettiamo di poter tornare a fare la nostra parte, per sentirci di nuovo completi.

Grazie ad Avo che ci ha permesso di diventare migliori e grazie al nostro Ospedale che ci ha consentito di tornare a sentirci parte di un tutto.

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