Letture: “Il secolo della solitudine” – Noreena Hertz (ed. il Saggiatore)

 

Amico o nonno in affitto, compagno di pranzo on line a pagamento, commercio senza contatto umano, relazioni virtuali o con robot utilizzati per compagnia o cura: non si tratta di fake news o di scenari fantascientifici, ma di realtà del mondo attuale. E nemmeno si pensi che siano comportamenti causati dalla pandemia di COVID, perché si sono manifestati già prima del 2020 e il distanziamento sociale imposto per prevenire il contagio li ha solo diffusi e aggravati. Si è giunti persino all’aberrazione della “cultura della cortesia negativa”, per la quale iniziare una conversazione o manifestare una affettuosità a un bambino al di fuori della cerchia delle conoscenze è considerato atto sospetto e da evitare. Tutto ciò dimostra chiaramente che abbiamo diminuito i contatti interpersonali, frequentiamo meno spazi condivisi, agiamo sempre più raramente insieme agli altri. La solitudine ci sta travolgendo, non solo in ambito individuale, nel senso che ciascun individuo si sente privato di accudimento, di rispetto, di gentilezza, ma anche in ambito sociale, nel senso che tale stato d’animo assume un aspetto collettivo con pesanti ricadute sulle comunità; pertanto la situazione richiede piena consapevolezza, sforzo e impegno di tutti, a livello pubblico e privato, per essere superata. “Gli enti del terzo settore devono riscoprire la loro appartenenza alle comunità territoriali, acquisendo consapevolezza della propria dimensione politica nel ruolo di attivatori di processi di cambiamento” (L. Squillaci).

Il saggio offre moltissimi e approfonditi esempi di tale realtà, nonché una attenta analisi delle cause, che qui si possono solo accennare. La sempre più diffusa esaltazione della libertà individuale, dell’interesse personale, della competitività aggressiva la possiamo costatare continuamente e i volontari AVO sono ben consapevoli che tali atteggiamenti contrastano con i propri valori e col perseguimento del Bene Comune. Il modo di vivere tipico soprattutto delle grandi città, caratterizzato da ritmi di lavoro sempre più pressanti, precariato, brevità della permanenza in uno stesso luogo, fretta convulsa (è stato calcolato che la velocità dei pedoni è aumentata del 10% rispetto agli anni ’90), così come lo stato di connessione permanente con i nuovi mezzi tecnologici (controlliamo il cellulare in media 221 volte al giorno) sono ormai sotto gli occhi di tutti. Persino i progressi dell’Intelligenza artificiale, sempre più utilizzata per processi decisionali e per la sorveglianza non solo sui luoghi di lavoro, ma anche sui comportamenti individuali e sociali (gli algoritmi che si avvalgono dei big data), fanno prevedere che le macchine, già ora in grado di imparare, divengano capaci di leggere stati d’animo complessi e quindi di sviluppare anche il loro livello di capacità “emotiva”, per sostituirsi all’uomo in ambiti sempre più vasti.

Certo non si nega che le nuove tecnologie possano anche aiutarci a mantenere relazioni in condizioni particolari di difficoltà, come il Covid ci ha dimostrato, o che realtà virtuale e assistenti-robot ci facciano sentire un po’ meno soli, ma dobbiamo essere ben consapevoli delle conseguenze negative dei processi di cambiamento in corso. Anche in questo caso si potrà solo accennare a tali problematiche approfondite invece nel saggio. Rinunciare alla diretta relazione personale significa rinunciare a una vera e propria cura di sé. Numerose ricerche hanno dimostrato gli effetti benefici di uno sguardo attento, di una vicinanza empatica, di un sorriso, di una carezza sulla salute non solo psichica, ma anche fisica. E questo i volontari AVO lo sperimentano costantemente nelle loro relazioni di aiuto. Inoltre le nuove tecnologie di comunicazione, generando abusi e dipendenza, rischiano di far perdere le capacità relazionali ed empatiche soprattutto a bambini e giovani, che ne abusano e ne diventano dipendenti: non a caso si parla di “bolle digitali” e di “comfort zone” in cui rinserrarci come se fosse possibile così garantirci benessere e sicurezza. In realtà la solitudine e la mancanza del senso di appartenenza a una comunità ci rendono più pigri, diffidenti, aggressivi e intolleranti, facendoci percepire l’ambiente come indifferente o, peggio, minaccioso. Disimpariamo, se ci isoliamo, a coesistere pacificamente con persone diverse, a gestire opinioni diverse, a trovare un equilibrio tra i nostri desideri e quelli altrui, ad attuare compromessi a vantaggio di una collettività inclusiva, ovvero ad affinare i comportamenti basilari per il progresso della democrazia e del Bene Comune. Dice Longhini: “La vera unità è un’unità di diversi, … è una realtà dinamica, sempre nuova”.

Cosa fare? “Se è vero che parte della forza (per creare comunità coese) arriva da una passione o da valori condivisi, perché le persone si sentano davvero legate le une alle altre serve anche del tempo. Senza ripetute opportunità di solidarietà e sostegno reciproco, le relazioni tra i membri di una comunità somiglieranno sempre più a un amore passeggero che non a un matrimonio”. Condividere compiti, responsabilità, successi e gioie, lavoro duro e continuo, garantire una presenza fisica continuativa sono fondamentali per generare fiducia reciproca, per maturare il desiderio di avventurarci oltre il già noto, per cogliere i cambiamenti e porre rimedio alle nuove fragilità. Più che mai questo dovrebbe suonare come un campanello di allarme per la nostra associazione, semiparalizzata nella sua attività da due anni di Covid, e come uno stimolo a riflettere sulle parole profetiche del nostro fondatore: “Non ci manchi la fiducia, ma nemmeno il coraggio del salto nel buio che qualche volta comportano i mezzi da utilizzare”.

Certo l’attivazione di politiche volte a creare luoghi accessibili e inclusivi, eliminando quei limiti che impediscono un completo ed autonomo godimento dello spazio urbano, è fondamentale, ma anche questo comporta un coinvolgimento delle comunità che devono farsi portavoce di molteplici esigenze. Ancora una volta l’adesione ad associazioni o gruppi locali si rivela fondamentale per promuovere tolleranza, democrazia, civiltà: non appare assurda la proposta di rendere obbligatorio per i giovani un periodo di servizio civile obbligatorio o almeno di promuovere attività di volontariato tra le giovani generazioni. Molte AVO, consapevoli del ruolo educativo del servizio presso persone anziane, fragili e malate sono da tempo impegnate a diffondere la conoscenza dell’associazione nelle scuole e ad ospitare studenti in stage. “Anche noi creiamo la società”, non ne siamo solo condizionati; “si tratta di compiere piccoli passi che a prima vista possono non sembrare molto, ma che col tempo avranno un impatto significativo”. Gli enti del terzo settore hanno una straordinaria funzione pubblica che va ben oltre l’utilità dei servizi che garantiscono: come tessitori e facilitatori di relazioni, di un vero reticolo fiduciario, contribuiscono a far crescere il capitale sociale e la coesione sociale, premessa indispensabile alla crescita di qualsiasi tipo di sviluppo. Dunque è “necessario un cambio di mentalità per trasformarci da consumatori in cittadini, da egoisti in altruisti, da osservatori indifferenti in partecipanti attivi” per realizzare in rete con enti pubblici, privati e associazioni quella Comunità sanante che tante volte il nostro fondatore ci ha additato come meta ultima.

Annamaria Ragazzi