Un’ex paziente che ha vinto la schizofrenia e il suo psichiatra ci raccontano la loro esperienza, spiegando perché i malati (e le loro famiglie) non devono perdere la speranza nella guarigione.
Lia ha 62 anni e un passato segnato dalla malattia: una schizofrenia paranoide che l’ha accompagnata per anni. «Sentivo le “voci” e avevo deliri di persecuzione, ero convinta di subire maltrattamenti, di venir sequestrata e stuprata» racconta Lia, settima di 11 figli, nata in Olanda ma in Italia dall’età di 20 anni. «Mi sono anche convinta di essere la principessa russa Anastasia: mio padre era lo zar Nicola, la mia vera madre secondo me era la nonna materna, e credevo di avere un fratello anziché dieci».
Perdendo sempre più il contatto con la realtà Lia arriva a separarsi dal marito e dal figlio 13enne, che pure ama molto, e resta senza lavoro. «Ma non ne cercavo un altro convinta che, in quanto Anastasia, sarei presto rientrata in possesso della mia identità e dei beni sottrattimi. Una fantasia di grandezza che compensava in realtà un profondo senso di inadeguatezza e inferiorità». A fasi alterne, Lia crede di essere un’ebrea perseguitata, poi di essere il Procuratore generale mondiale che combatte crimini e ingiustizie. «Vedendo il male ovunque, ho iniziato a inoltrare alla Procura una serie di esposti, arrivando a ben 160!». Per questo il tribunale di Torino affida il suo caso allo psichiatra Giuseppe Tibaldi.
«E’ stato l’incontro con lui che, dopo molte resistenze da parte mia, mi ha portata verso la guarigione» dice Lia, ricordando il giorno dello sfratto (non pagava le bollette per paura di una bomba nella cassetta postale): Tibaldi l’ha seguita per la città cercando di convincerla ad andare in Ospedale. Alla fine, le è stato imposto il ricovero con Trattamento sanitario obbligatorio (TSO). «Grazie ai farmaci non ho più sentito le voci, ma per liberarmi dai deliri mi ci sono voluti anni, un lungo periodo in comunità e una psicoterapia di 10 anni». Dal 2002, d’accordo con lo psichiatra, Lia smette di assumere farmaci e dal 2009 finisce anche la psicoterapia: ormai può camminare con le sue gambe. Oggi è una donna normale, ha riallacciato i rapporti con il marito (che non l’ha mai abbandonata), conduce un gruppo di auto-mutuo aiuto e ha scritto un libro sulla sua storia (L. Van der Win, Un legame materno non si recupera più? Autobiografia di una schizofrenica guarita, Mimesis 2010).
Lia, ci spiega Tibaldi, è guarita quando ha compreso ed elaborato le sue difficoltà nei rapporti familiari, in particolare con la madre, da cui si è sempre sentita trascurata e poco amata. Prima della sua nascita era morto un suo fratellino e per il trauma la mamma era stata tre mesi in reparto psichiatrico (mentre il marito, il papà di Lia, si era dato all’alcol); in seguito si era sempre comportata in modo ambiguo e poco affettuoso verso i figli, almeno dal punto di vista di Lia. «Nella ricostruzione dei vissuti familiari non si tratta di trovare un colpevole» spiega Tibaldi, «ma di far emergere un significato che dia alla persona malata il bandolo per dipanare la matassa della sua psicosi». La guarigione è «un percorso in cui si acquisisce la chiara consapevolezza e memoria della propria esperienza psicotica, riconosciuta come tale e privata perciò della sua virulenza: Lia adesso sa e ricorda che quelle erano “voci” e non sue doti telepatiche».
Ma, soprattutto, la storia di Lia dimostra che di schizofrenia si può guarire. «Molti medici rifiutano questa possibilità e, quando sentono di un paziente guarito, negano l’evidenza dicendo che “non si trattava di vera schizofrenia”» dice Tibaldi, per cui l’idea dell’inguaribilità è «l’ultimo muro del manicomio che ci resta da abbattere». Ma perché questo pregiudizio è così radicato tra i clinici e persino tra i malati?
Il fatto è che i medici, dice Tibaldi – e anche i Volontari di servizio in Psichiatria, NdA – hanno continuamente sott’occhio i malati cronici o con ricadute, mentre quelli che guariscono scompaiono dalla vista, in ospedale non ci tornano più e si finisce per “dimenticarli”, mantenendo così l’impressione che tutti i pazienti psichiatrici siano condannati a vita.
In realtà «gli studi scientifici più accreditati mostrano che la percentuale di guarigione negli psicotici è superiore al 50%, anche se può volerci molto tempo. Il caso-limite dell’americano Ken Steele, guarito dopo 32 anni (si veda l’autobiografia di K. Steele, E venne il giorno che le voci tacquero, Mimesis 2010) dimostra che non si devono alimentare illusioni promettendo guarigioni facili, ma nemmeno negare ai malati e alle loro famiglie “ragionevoli speranze”: perché le probabilità positive superano quelle negative», spiega Tibaldi. E aggiunge che, a suo parere, gli studi pessimistici sono viziati dagli interessi delle industrie farmaceutiche, pronte a pagare fior di ricercatori per dimostrare che “se togli il farmaco ricompare il sintomo”, trasformando i malati in cronici per vendergli medicine tutta la vita.
L’autrice è Volontaria AVO Torino e Responsabile volontari del Reparto di Psichiatria