Duc il altum  (ri)prendi il largo

Nei momenti più forti della tempesta si riavvolgono le vele e si tirano i remi in barca, magari non si tiene troppo rigidamente il timone per combinare la forza con la prontezza.

Per un po’ si naviga a vista. Ma solo per il tempo necessario a percepire l’evoluzione del vento, delle onde, della visibilità, dello stato complessivo della barca. E soprattutto degli imbarcati.

E poi si riparte al più presto, in base alla evoluzione della situazione per riprendere (o adattare) la rotta alla meta (desiderata o possibile).

Dove vogliamo/possiamo andare, perché e come? Ora è il momento di alzare, e soprattutto allungare lo sguardo (o l’immaginazione se la visibilità è scarsa) chiedendoci quali sono le nostre finalità. Poi ci affideremo alla vela o al motore ma con il timone saldamente in mano.

Salvarci e arrivare.

Infatti non basta tenere a galla l’imbarcazione e contenere e/o riparare i danni, questo è necessario per salvarci (o salvare il salvabile). Su questo noi “italiani” siamo dei buoni (spesso eccellenti) “pompieri”.

Poi però bisogna pensare al “dopo” per attrezzarci a raggiungere (o recuperare) i nostri obiettivi, cioè arrivare , e per questo occorrono strumenti e competenze adeguati. E su questo versante forse noi “mediterranei” – che pure il mare lo conosciamo – forse dobbiamo ancora crescere.

Infatti noi temo che abbiamo declassato il significato di alcune parole chiave: per noi obiettivo equivale a sogno, progetto si vive come esercitazione, programma è utopia, prevenzione è spreco, speranza equivale a illusione, medio o lungo termine solo fantasia (anche se qualcuno magari ci chiede queste cose se vogliamo che ci sostenga). Per cui dedicare tempo e risorse, competenze e impegno pensando al futuro è una cosa certo edificante, ma di utilità ritenuta il più delle volte marginale e comunque molto dubbia e incerta, che quindi non merita attenzione soprattutto quando (cioè quasi sempre) vi sono problemi contingenti e difficoltà da risolvere con urgenza nei tempi e nei modi più efficienti e meno costosi. O quando mancano le risorse – umane o materiali – perché evidentemente non sono state accantonate (o preparate) per i motivi detti sopra.

Nelle fasi di emergenza, è indubbio che bisogna prima di tutto contenere, rimediare, curare, attivarsi anche fino al sacrificio per salvare il salvabile (o i salvabili). E questo chiama in causa tutti: le funzioni preordinate a cominciare da quelle pubbliche, dal governo centrale o locale ai sistemi dedicati alla sicurezza e alla salute, ma – per quanto discutibili nei metodi e negli approcci e nei precedenti (vedi tagli alla sanità) – è inevitabile che abbiano dei limiti. Pertanto occorre che i cittadini, cioè noi, giochiamo la nostra parte. Naturalmente cominciando da chi è professionalmente in prima linea (sanitari, addetti ai trasporti, alla protezione civile ecc.), ma per quanto sia grande la loro abnegazione, di fronte a uno “tsunami” di questa portata dobbiamo muoverci tutti, compresi coloro che guidano organizzazioni for o non profit, fino ai cittadini semplici a livello individuale o, meglio, organizzati in forme collettive di volontariato.

Come spesso in passato, anche in questa circostanza, questi ultimi si sono dimostrati pronti ad intervenire anche perché la loro vocazione va al di là del servizio materiale ma si arricchisce di una premessa fondamentale: quella della relazionalità affettiva che si esprime in solidarietà attiva (carità per i cristiani). In presenza, però di una pandemia di questa portata – che ha richiesto regolamentazioni rigide per limitarne la diffusione – la loro opera ha incontrato in molti casi concreti ostacoli e difficoltà che hanno reso più difficili e complesse anche attività consolidate nel tempo per non parlare di interventi decisamente esclusi in ambienti ad alto rischio di contagio (ospedali, locali di ritrovo a vario titolo ecc.).

Così stiamo vedendo sul campo ad un tempo Organizzazioni di lunga tradizione e dotate di competenze e capacità operative consolidate che hanno potuto tempestivamente orientarsi e specializzarsi per rispondere alle esigenze specifiche della pandemia, mentre altre sono rimaste bloccate a causa proprio di consolidate specializzazioni ostacolate dalle nuove regole. Nel frattempo sono nati nuovi gruppi proprio in risposta a queste esigenze improvvisando e poi perfezionando risposte “su misura”. Per non parlare della esplosione del volontariato individuale di comunità o di vicinato che nessuna statistica potrà misurare, ma che si dimostra vitale per molte famiglie e persone in crisi.

Guardare fuori, guardare avanti

Se è vero che per intervenire oggi occorrono risorse, competenze, ed efficienza organizzativa per raggiungere il massimo di tempestività e di qualità della risposta all’emergenza, il livello di efficacia della risposta dipende in gran parte da come per la barca della nostra metafora – a suo tempo – si è “avuto cura di equipaggio, scafo e strumenti…” perché tutto è più difficile se si è impreparati o male equipaggiati.

Quando si tratta di prevenire fenomeni importanti (non solo pandemie) e di difficile prevedibilità perché rari, la difficoltà consiste nel fatto che dobbiamo partire molto da lontano e guardare molto avanti e allargare l’orizzonte a contesti più ampi dei riferimenti quotidiani. Per esempio considerare che tagliando le risorse per anni a un settore vitale come la sanità (o la ricerca o la cultura) prima o poi ci si espone a rischi crescenti; ma ancor più in generale saccheggiando il pianeta  (pensiamo ai fossili o alla plastica) e non intervenendo per correggere derive sociali che creano povertà e diseguaglianze (dalla finanziarizzazione al consumismo), prima o poi i nodi arrivano al pettine e rendono ardui e in definitiva poco efficaci interventi anche sostenuti da grande mobilitazione di risorse, perché in definitiva devono limitarsi ad influire sugli effetti piuttosto che sulle cause.

In concreto, a parte intuizioni di pensatori lungimiranti se non addirittura profetici, nella vita bisogna fare tesoro di esperienze anche non recenti. Quante pandemie hanno toccato la nostra umanità nei secoli scorsi? A pensarci bene ci hanno insegnato molte cose. Certo, in prima istanza a cercare di limitare i contagi perché questo aiuta a contenerne la portata, poi ad avere strutture di intervento e cura ma non solo di riparazione. Infatti, poiché siamo esseri dotati di discernimento e capaci di programmare , ci dobbiamo attivare non solo per riparare ma anche per cercare vie nuove per prevenire.

Duc il altum  prendi il largo

Dopo lo shock e i primi interventi necessariamente convulsi e gravosi, forse abbiamo imparato che occorre cambiare registro. Dall’alto dirà qualcuno, ma certo anche dal basso. Infatti occorre ri-spiegare le vele o riaccendere il motore e rimettere i remi in acqua ma attivando non solo capacità di mantenere la rotta ma anche abilità, inventiva, creatività e prontezza per condurre la barca alla meta in sicurezza.

Forse abbiamo imparato che se ci si muove in logica responsabile e collaborativa fra istituzioni e società civile si ottengono risultati migliori e più duraturi (cittadini che rispettano le disposizioni ma anche Amministrazioni che le elaborano e le comunicano adeguatamente amministrandole in modo non burocratico).

Forse abbiamo capito che è importante (anche prima che succeda una calamità)  tenere gli occhi aperti con discernimento su ciò che succede o si progetta, sostenendo le iniziative positive e contrastando quelle negative per il bene comune, senza lasciarci condizionare  dai particolarismi o dalle promesse ad effetto.

Forse abbiamo percepito come vi siano connessioni di fondo fra sfera sociale, economica e ambientale (la pandemia ha fatto esplodere situazioni di povertà sulle cui origini non è irrilevante la crisi ambientale e il sistema economicistico che ci domina).

Forse abbiamo scoperto che i nostri destini sono meglio difesi quando vi sono competenze e motivazioni all’altezza non solo del consueto ma anche dell’imprevisto (abilità che vanno cercate, promosse (e votate), responsabilizzate e sostenute, al di là di propagande o appartenenze).

Forse come organizzazioni sul campo ci siamo resi conto che ogni tanto conviene rimettersi in discussione e magari cambiare strada in relazione ai cambiamenti della società o della sua organizzazione o delle nuove priorità che emergono (magari con l’aiuto dei giovani e dei “diversi”).

E nel nostro piccolo come individui, forse abbiamo capito che contano di più impegno, responsabilità  e sane relazioni costruttive (meglio in presenza che on line …) che la rincorsa al consumismo o all’immagine.

Così anche se non potremo scongiurare tutte le emergenze (terremoti, pandemie ecc.) saremo quantomeno più preparati ed efficaci a fronteggiarle.

È quindi finito il tempo dei remi in barca, ora occorre il coraggio di navigare ricordando che la barca non regge e non arriva in porto se tutto l’equipaggio non collabora. Ricordando a chi di dovere che il volontariato non può essere inteso solo come “barelliere”[1] ma conviene valorizzarne le capacità conoscitive, progettuali e innovative (generatività). E soprattutto che non va ostacolato ma facilitato soprattutto nelle emergenze come giustamente richiesto: #nonfermateci  (iniziativa del TS che chiede aiuti concreti a Governo e Parlamento).

Certamente, anche se prima dobbiamo essere noi a dire “non fermiamoci!” curando le necessarie correzioni di rotta.

Gianpaolo Bonfanti
Consigliere nazionale MoVI Movimento Volontariato Italiano

 

[1] https://welforum.it/il-punto/tempi-di-precarieta/terzo-settore-emergenza-covid-19-a-che-punto-siamo/