Testimonianze: Giovanna, volontaria di Reggio Emilia, si racconta

Il mio incontro con l’associazione è avvenuto per caso, proprio come accade per i grandi amori o per le amicizie importanti. Era da un po’ di tempo che meditavo come rendere qualcosa alla società essendo io in pensione, una garantita rispetto ad altri davanti a una così grave crisi economica. L’incontro con l’AVO alla Giareda del 2014 è caduto così come la ciliegina sulla torta; ho partecipato al corso e sono stata accettata.
Da allora la motivazione non è cambiata.

Il dubbio che però mi ha assalita fin da subito è stato se per caso non stessi ricoprendo il ruolo di qualcun altro, se non stessi “portando via il lavoro” spettante ad altri. Mi ci è voluto oltre un anno e la presenza ad alcuni incontri del successivo corso di formazione per chiarirmi. Devo dire che partecipare agli incontri dell’associazione è come rivedere un bel film: tu sai come va a finire e proprio per questo ti puoi permettere di scoprire un nuovo particolare, di riflettere su un aspetto che ti era sfuggito. Ora amo definirmi un “donatore di tempo” e ciò non è paragonabile a nessun mestiere, a nessuna professione.

Non ho mai avuto problemi particolari a rapportarmi ai malati. Il mio approccio è “naturale” cioè mutuato dalla vita comune. Nel quotidiano, metaforicamente parlando, ho sempre consentito quel capriccio in più al nipotino malato se poteva aiutarlo a stare meglio, ma senza esagerare. Non mi sono offesa davanti al carattere spigoloso e ai silenzi di chi in quel particolare momento non aveva altro tempo che per sé e per i propri pensieri. Al contrario ho accolto volentieri la valanga di parole di chi aveva solo quella modalità per affrontare le proprie ansie e le proprie preoccupazioni. Non dobbiamo infatti dimenticare che noi “temporaneamente sani” siamo momentaneamente più forti e fortunati. Ho sentito spesso dire che quando si torna a casa, finito il nostro servizio, si è più felici; veramente io sono solo più stanca: far sì che il paziente sia protagonista della nostra relazione mi richiede molto impegno e molta energia.

Non posso dire di avere ricevuto qualcosa in particolare dai malati, ma certamente ho potuto riflettere sulla malattia e ancor più sulla morte. Quando cammini, infatti, per i corridoi di medicina oncologica, la morte è sempre al tuo fianco sia come evento reale, sia come timore, sia come lo scorrere inesorabile del tempo che testimonia l’avanzare della malattia. Al volontario, come a chiunque altro, non restano che due possibilità: o negare la morte (come tenta di fare la società moderna) e farsi cambiare di reparto o viverla come compagna di vita, coglierne i segni, accettarne i rituali. Credo di essere in cammino su questa seconda via e non è poco.

A questo punto è doveroso spezzare una lancia in favore del nostro Ospedale Santa Maria Nuova, dei suoi medici, di tutto il suo personale: sanno tutti coniugare grande professionalità con grande umanità. Ho visto medici commuoversi parlando dei propri pazienti, parlare dell’inaugurazione del CORE come della nascita di un proprio figlio. Questi eccellenti professionisti il più delle volte vincono la battaglia contro la morte ma quando questo non accade non ti lasciano solo, al contrario ti accompagnano nell’ultimo cammino con tutto ciò che possa alleviare la tua ansia e la tua sofferenza. Debbo dire che dopo aver frequentato l’Ospedale paradossalmente sono molto più serena e rassicurata rispetto a prima!

Certo in questi due anni non sono mancati momenti difficili e dolorosi. Non credo che potrò facilmente dimenticare le urla strazianti di una giovane donna, sposatasi in reparto solo il giorno prima, alla quale la notte aveva portato via il marito. Non sono stata in grado di fare niente per lei. Un amore, il suo, inconsolabile e disperato. E non è stato neppure come bere un bicchier d’acqua ricevere da un paziente la gravosa confidenza che di lì a tre giorni sarebbe andato in Svizzera a porre fine alla propria esistenza. Mi diceva che la maggiore resistenza alla sua decisione era venuta dalla moglie che alla fine aveva ceduto. Così, una sigaretta dopo l’altra, mi chiedeva cosa ne pensassi. Non ho voluto né saputo esprimere alcun parere, ma certamente una cosa mi è venuta spontanea: gli ho detto che era molto amato perché un amore che sa farsi da parte è un amore immenso e rispettoso. Gli ho augurato che questo amore potesse accompagnarlo fino alla fine, qualunque fosse stata la sua decisione.

Ho voluto citare questi due episodi non solo per ricordare i parenti dei malati, persone che talvolta hanno bisogno della nostra solidarietà quanto e forse più dei malati stessi, ma anche per rilevare che negli affetti – come nel volontariato – ognuno ha la propria sensibilità, il proprio stile. Vi è però tra tutti noi volontari AVO un denominatore comune: un profondo desiderio di umanità.

Non so trovare parole chiave per definire la nostra associazione, ma poco mi importa. Io sono nell’AVO perché finora si è dimostrata un’associazione in grado di raccogliere, di indirizzare, di coltivare, di potenziare, di curare il bisogno di amare di tante persone, compreso il mio.

Giovanna Piffari, volontaria AVO di Reggio Emilia