Le interviste del Nuovo Noi Insieme: Raffaele Donini – Assessore per Le Politiche della salute dell’Emilia-Romagna
A cura di Annamaria Ragazzi
1) Quali sono, secondo lei, le innovazioni che le Case della Comunità introducono, soprattutto nella integrazione socio-sanitaria, per rispondere alle esigenze non solo della popolazione fragile, ma anche di tutta la cittadinanza?
Il benessere individuale ha senso se esiste un benessere sociale e dall’importanza della coesione sociale: questo è il presupposto su cui si fondano le innovazioni delle Case della Comunità. È quindi necessario tenere in considerazione tutta la popolazione che vi afferisce, non soltanto chi è più fragile o portatore di una patologia cronica.
Intendiamo, alla luce di tutto ciò, realizzare e concretizzare il passaggio da Casa della Salute, al quale siamo già abituati, a quello di Casa della Comunità proprio per dare ai cittadini risposte adeguate ai bisogni espressi, mantenendo una forte connessione tra la sfera sociale e quella sanitaria, a partire proprio dall’intersettorialità.
A questo proposito, stiamo lavorando – attraverso un ampio percorso partecipato e articolato – alla stesura del nuovo Piano Socio-Sanitario Regionale per andare verso quello che possiamo definire un “welfare di prossimità e di comunità”, non con l’obiettivo “prestazionale”, ma che punti all’emancipazione delle persone rispetto alla propria salute, che siano tutte coinvolte nel processo di generare salute per sé e per la comunità. Questo è il modo per puntare a ridurre le diseguaglianze sanitarie e sociali.
2) Forse c’è il rischio che tali strutture si riducano a semplici poliambulatori: come fare per evitare tale pericolosa deriva e superare le voci contrarie alla loro istituzione?
È nella definizione stessa di Case della Comunità che si trova il senso di queste strutture: comunità. A questa parola va dato un senso proprio per evitare che “si riducano a semplici poliambulatori”.
Farei un esempio pratico: è necessario che il “contenitore”, l’edificio che ospita la Casa della Comunità, sia immediatamente riconoscibile, in modo che il cittadino possa subito identificare un luogo del suo territorio dove rivolgersi per avere le risposte ai suoi bisogni di salute non acuti. E per evitare che questo diventi solo un luogo in cui ottenere prestazioni con una visione della “risposta al bisogno”, è necessario che proprio la comunità, in questo luogo, sia protagonista. Ecco allora che trova senso il coinvolgimento delle Istituzioni (Enti Locali, Scuola, Lavoro, Ambiente, Asl), del terzo settore no profit e del volontariato, per un comune progetto di salute adattato a quel territorio e a quella comunità.
Con le Case della Comunità cambia un paradigma: gli operatori non sono in attesa del paziente/cliente, ma devono “andare verso” per rispondere ai bisogni in modo appropriato, coordinandosi per massimizzare l’efficacia degli interventi.
Dobbiamo insomma pensare alle Case della Comunità come elementi essenziali di connessione, in cui tutti tendono realmente all’integrazione organizzativa per una risposta univoca. Questa è probabilmente la migliore risposta ai dubbi e alle contrarietà. E la realtà dei fatti, se non la storia (pandemia COVID in primis) ha dimostrato ampiamente che l’assistenza territoriale è veramente efficace solo se è interconnessa e se realmente si dà significato al concetto di presa in carico del cittadino.
3) In che modo il volontariato può svolgere un efficace servizio a livello di supporto umano, ma anche di educazione e prevenzione per la salute pubblica?
La domanda di salute proveniente dal territorio non può non coinvolgere i cittadini stessi anche attraverso le loro associazioni.
Queste associazioni hanno maturato nel tempo molta esperienza, competenza, hanno investito sulla formazione, sullo studio e svolgono, attraverso la partecipazione attiva e di rappresentanza dei cittadini, un’importante funzione di raccordo con le istituzioni in diversi ambiti. I volontari sono parte attiva ed integrante di percorsi socio-assistenziali, sia nei confronti di persone fragili con disagio psico-sociale o malattie, sia di prevenzione per la salute pubblica.
È quindi non solo evidente, ma doveroso, che le esperienze già maturate negli anni passati (solo per citare alcuni esempi: gruppi di cammino, reti ed alleanze sociali a livello locale per la promozione di stili di vita sani, ecc.) dovranno essere consolidate, continuando ad adottare una logica partecipata e condivisa con associazioni e gruppi di volontariato.
4) Non crede che le Case della Comunità offrano un valido banco di prova per quella co-programmazione e coprogettazione di cui tanto si parla, ma che fatica a realizzarsi, trattandosi di un vero e proprio salto di qualità culturale cui tutti dobbiamo collaborare per il Bene comune?
Partiamo da un presupposto: la Casa della Comunità può rappresentare il punto d’incontro tra soggetti, istituzioni e istanze sociali per il benessere e la salute si genera dove, secondo le linee dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “le persone vivono, lavorano, amano, giocano” (Alma Ata, 1978). Per questo è conseguenza naturale la necessità di dare concretezza alle parole “co-programmazione” e “coprogettazione”. Le Linee Guida attuative sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore approvate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con il Decreto Ministeriale n. 72 del 31/03/2021 saranno lo strumento utile affinché la co-programmazione e la co-progettazione siano nono solo parole, ma modalità effettive di relazione tra enti pubblici e Terzo Settore.