L’accompagnamento del malato inguaribile (Padre A. Pangrazzi)

Iniziamo l’anno con una serie di articoli formativi, il primo articolo di Padre Arnaldo ci offre l’opportunità di riflettere sull’accompagnamento del malato inguaribile; nelle prossime settimane continueremo la riflessione con altri pezzi.

L’ACCOMPAGNAMENTO DEL MALATO INGUARIBILE

L’impatto con una diagnosi infausta, quale una patologia oncologica, svela l’uomo in tutta la sua fragilità e gli rammenta la provvisorietà dei beni e delle certezze, ma può risvegliare e portare alla luce il suo coraggio, la sua capacità di lottare e di sperare.
La risposta ad una malattia grave dipende molto dal carattere e dalle risorse interiori di chi soffre, dalla forza che la persona attinge alla sua fede e dalla sua apertura a sanare la mente, il cuore e lo spirito nel processo di purificazione di valori che l’avversità comporta.
Nella mente di molti la parola “tumore” o “cancro” suscita un’angoscia immediata, perché culturalmente identificata con il patire, la chemioterapia, talvolta lo sfiguramento o l’approssimarsi della morte.

In realtà, la scienza ha fatto notevoli progressi e diverse patologie oncologiche possono essere debellate; inoltre il tempo di vita è notevolmente esteso e la morte dilazionata. Molto dipende dal tipo di tumore, dall’organo colpito, dalla diagnosi precoce e dalle risorse mediche e sanitarie disponibili sul territorio.
Per ridimensionare l’angoscia che avvolge questa patologia occorre, innanzitutto, adoperarsi per trasformare il clima culturale odierno.

Figli, ma non schiavi della cultura

La società attuale, soprattutto quella più evoluta dal punto di vista tecnologico e scientifico, vive un enorme disagio nei confronti del cancro e della morte, termini da bandire dalle conversazioni o eventi da rimuovere dalla consapevolezza.
Il Dalai Lama commenta che “Gli uomini dell’Occidente vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mi vissuto”.
Anche all’interno delle famiglie l’amore protettivo induce le persone a non affrontare con realismo la malattia ed il morire assumendo condotte o “pedagogie invalidanti” che perpetuano le paure.
Dinanzi ad un familiare che invoca informazioni sul perché di determinate terapie, si attiva la “congiura del silenzio” o si cambia argomento per distrarlo o lo si redarguisce dicendogli che pensando a queste cose non lo aiuta certo a guarire. Ci si comporta come se il diretto interessato fosse incapace di intendere e volere e si ritiene traumatico comunicargli la verità delle sue condizioni, per cui si preferisce mascherare la verità con tante bugie benevole. In tal modo, si resta prigionieri della paura e incapaci di affrontare con realismo l’unico evento che, dopo la nascita, accomuna tutti i mortali, cioè il morire.         Il diffondersi di atteggiamenti problematici, quali la negazione, il paternalismo, gli eufemismi, la rimozione, la fuga, tutti comportamenti dettati dall’affanno di rimuovere l’angoscia in nome della tutela della speranza, hanno disumanizzato e impedito di affrontare con apertura e realismo il mistero dell’ultimo viaggio.
L’appello rivolti a tutti è di essere consapevoli che siamo figli della cultura, ma non schiavi per cui ognuno è interpellato a diventare un agente per trasformarla attraverso atteggiamenti costruttivi  da promuovere all’interno della propria famiglia, della scuola, della società e delle istituzioni sanitarie.
Come scriveva Michel de Montaigne “Chi insegnasse agli uomini a morire, insegnerebbe loro a vivere”.

 Uno sguardo realistico[1]

Il tramonto dell’esistenza è inevitabile, ma imperscrutibile. Nessuno sa come, dove e quando si compirà il suo tempo sulla terra.
C’è chi conclude il proprio pellegrinaggio terreno in un ospedale e chi a domicilio; chi trascorre l’ultima notte sul letto dove ha trascorso migliaia di notti e chi in una stanza lontana centinaia di chilometri dalla propria casa. Basta una visita ad un reparto di oncologia o ad un hospice, per rendersi conto del variegato scenario che contrassegna i commiati dal mondo.
C’è chi giunge all’ora del trapasso con le mani cariche di frutti raccolti durante il proprio cammino e chi con le mani vuote; chi è grato per i progetti realizzati e chi è amareggiato per la progettualità perduta; chi esprime gratitudine per quanto ha ricevuto e chi protesta per quanto non ha mai avuto; chi è in pace con se stesso e con gli altri e chi continua ad alimentare tensioni; chi prega e chi maledice.
L’esito di un male che minaccia la salute biologica e dinanzi al quale anche la scienza annuncia i suoi limiti, diventa appello a concentrarsi sulla salute biografica, che riguarda la prominenza delle risorse cognitive, affettive e spirituali del malato.
È importante che l’ultimo capitolo della propria storia non sia scritto dalla prigione della solitudine e dell’abbandono, ma confortati da volti umani che facilitino l’attraversamento dell’ultimo ponte, in vista di aprirsi al mistero dell’eternità.
Il bisogno più grande dei malati terminali è di non essere lasciati soli, ma di sentirsi accompagnati.

Arnaldo Pangrazzi, camilliano

[1] Arnaldo Pangrazzi, L’accompagnamento dei morenti in Orientamenti Pastorali n.9, 2014, p.56-63.