La miglior cura? L’Amore
Iniziamo la pubblicazione di interviste, articoli e testimonianze relative al XXI Convegno che si è svolto a Chianciano il 18/19/20 maggio 2018.
“LA MIGLIOR CURA? L’AMORE”
Questa la ricetta di Grégoire Ahongbonon, che da 25 anni libera i malati psichici dell’Africa tenuti in catene.
«Ho visitato diversi ospedali psichiatrici in Europa. Il vostro continente ha i migliori farmaci, ma la vera medicina è l’amore. Se mancano l’amore e la fiducia nei pazienti, qualunque farmaco è inutile». A parlare è Grégoire Ahongbonon, soprannominato il “Basaglia africano”. Nato in Benin 66 anni fa, quest’uomo di umili origini ha dedicato la vita ai malati psichici, raccogliendoli per strada e liberando quelli tenuti imprigionati dai familiari o da sedicenti guaritori e santoni. In 25 anni sono stati 60.000 i malati ospitati nei centri di accoglienza e reinserimento da lui creati in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. Lo abbiamo incontrato al Convegno Federavo di Chianciano, ospite d’onore, in occasione del suo viaggio di presentazione del libro “Grégoire. Quando la fede spezza le catene”, una biografia puntuale e appassionata scritta dal giornalista Rodolfo Casadei (Emi 2018).
«Io sono un uomo ignorante, non ho avuto l’opportunità di studiare, per vivere facevo il gommista» ci ha raccontato Grégoire. Malgrado ciò, è stato in grado di fondare l’Association Saint Camille de Lellis per prendersi cura dei malati con un approccio rivoluzionario, paragonabile a quello di Franco Basaglia, lo psichiatra veneto che ha liberato i ‘matti’ dal manicomio. All’incirca nella stessa epoca, Grégoire li ha affrancati dalle catene e dalle torture. Ma andiamo con ordine.
Questo ex riparatore di pneumatici non è stato sempre un modello di vita. Come racconta Casadei, per procacciarsi nuovi clienti spargeva chiodi per le strade in modo da far bucare le auto. Il sistema per un po’ gli fa buon gioco, Grégoire diventa facoltoso e a un certo punto può avviare un servizio privato di taxi, con 4 veicoli di sua proprietà. Ma il vento della fortuna cambia giro e dopo qualche anno l’imprenditore si ritrova sul lastrico, con moglie e due figli (che oggi sono diventati sei) da mantenere. Grégoire non sa cosa fare e arriva sull’orlo del suicidio. Ma in quel momento scatta in lui la molla della fede. «Da anni avevo trascurato la mia religione, quella cattolica che era la stessa di mio padre, mentre mia madre era animista» ci racconta. «Ma in quel momento ho sentito il richiamo di una Voce che mi invitava a usare bene la vita che mi era stata donata». Questa conversione, che spinge Ahongbonon a cambiare vita, rimarrà lo stimolo costante di tutte le sue scelte successive. Grégoire crea un gruppo di preghiera che va a trovare i malati, all’inizio solo fisici, nell’ospedale di Bouakè (in Costa d’Avorio, dove Grègoire si è trasferito all’età di 18 anni) lavandoli, portando loro il cibo e pagando i medicinali. Tutta la sanità africana, pubblica e privata, prevede infatti che i malati o le loro famiglie si assumano i costi per le visite, i ricoveri, gli interventi chirurgici, i farmaci ecc. Il gruppo di preghiera, che presto si costituisce in associazione – l’Association Saint Camille de Lellis – sceglie perciò di occuparsi dei pazienti soli e poveri.
E’ del 1991 “l’incontro” di Grégoire con la malattia mentale. «Una mattina, all’uscita da messa, sono stato colpito dalla vista di un folle che vagava nudo rovistando nella sporcizia in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Di persone come quella, che vivevano ai margini della città, tra i rifiuti o agli incroci stradali, ce n’erano tante e ho iniziato a portare loro cibo, acqua e abiti puliti». Nell’iniziativa coinvolge, come sempre, i volontari della Saint Camille e la moglie Léontine, che cucina le pietanze da distribuire. Intanto Grégoire ottiene uno spazio all’interno dell’ospedale di Bouakè per il ricovero di quegli uomini, donne e adolescenti colpiti dalla malattia psichica e ‘persi’ per strada: tra gli abitanti della cittadina, i missionari e le suore presenti nel Paese si sparge la voce di quanto Ahongbonon sta facendo, e iniziano a segnalargli sempre nuovi casi di malati da accogliere. Ma è solo dopo qualche anno, attraverso la sorella di un ammalato, che Grégoire scoprirà la realtà sconvolgente dei folli tenuti imprigionati: con le gambe, le braccia o il collo bloccati da catene, o con gli arti incastrati in ceppi di legno. Costoro vengono segregati dalle famiglie, che provano paura e vergogna, oppure affidati alle “cure” di santoni e guaritori nei campi di preghiera, animisti, islamici, cristiani. «In Africa si crede che la follia sia il risultato della possessione diabolica: l’anima della persona colpita è mangiata o posseduta dagli spiriti maligni (dal demonio, nella versione delle sette cattoliche o protestanti)» spiega Grégoire. Perciò nei campi di preghiera i malati sono spesso lasciati digiuni, frustati, abbandonati tra le immondizie, legati a tronchi d’albero, senza riparo dai capricci del clima. «Si pensa che colpendo il corpo lo spirito cattivo si allontanerà da esso. Un trattamento disumano, in cui molti perdono la vita. Chi finisce in un campo di preghiera difficilmente ne fa ritorno, e anche le reclusioni in casa possono durare tutta la vita».
Grégoire viaggia di continuo attraverso i Paesi dell’Africa occidentale dove opera la Saint Camille, proprio per andare a liberare i malati reclusi. «Un aspetto importante è il lavoro di convincimento delle famiglie, bisogna far capire che i loro cari possono essere curati, che la malattia si può superare grazie ai farmaci e all’amore. Spiegando questo, mostrando quel che si fa nei nostri centri, i parenti si lasciano convincere e ci affidano i malati. I primi tempi ci ostacolavano, a volte ho dovuto minacciare di denunciarli per sequestro di persona, ora invece capita sempre più spesso che siano loro a chiamarci per liberare il familiare malato».
Ma qual è il metodo applicato da Grégoire che gli ha valso l’appellativo di Basaglia africano? Meritandogli anche numerosi riconoscimenti internazionali, dal Premio per la lotta contro l’esclusione sociale dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) al Premio di Ginevra per i diritti umani in psichiatria, fino alla proclamazione di “africano dell’anno” nel 2015, per citarne alcuni. La sua ricetta terapeutica include: la fornitura di farmaci a basso costo (cioè psicofarmaci di prima generazione esenti da brevetto), la cura dei malati attraverso l’amore e l’accoglienza, l’intervento di infermieri e operatori sanitari che sono essi stessi ex pazienti, guariti o stabilizzati grazie alle medicine. Un’esperienza simile in Italia è quella degli Ufe – Utenti e familiari esperti – di Trento: circa 40 persone che affiancano gli operatori, ma senza sostituirli, contribuendo a creare nei centri di salute mentale un clima più sereno e collaborativo.
Il cuore del sistema di Ahongbonon, come quello di Basaglia, è il rifiuto di ogni contenzione, il valore della dimensione affettiva nel rapporto con il paziente e il coinvolgimento delle famiglie. Inoltre, ci spiega Grégoire, «accanto ai centri d’accoglienza il nostro sistema prevede centri di reinserimento dove i pazienti imparano un mestiere, o riprendono in mano quello che svolgevano prima della malattia. Credo che il modo migliore per uccidere un essere vivente sia non farlo lavorare. Una volta, in Francia, alcuni malati psichici hanno visto un video sulla storia e il metodo della Saint Camille: a colpirli di più non sono state le scene dei folli incatenati o torturati, ma la scoperta della possibilità di lavorare come le persone ‘normali’. Dare questa opportunità è un segno di fiducia in loro. Avere un mestiere fa sentire utili e vivi, e facilita il ritorno a casa e nel villaggio».
Nella sua vita Grégoire ha incontrato decine di migliaia di malati psichici e raccolto tante storie di vita, di sofferenza e di riscatto. Come quella di Marianne. «L’avevamo trovata per strada, buttata per terra, completamente disidratata. Aveva una banana in un sacchetto, ma non aveva la forza di aprirlo per mangiarla e non era in grado di alzarsi in piedi. L’ho presa in braccio e caricata in auto per portarla a casa mia. Lì l’abbiamo lavata, vestita e poi condotta al centro di accoglienza. Quando è guarita l’abbiamo portata dal fratello, lui era emozionato e commosso, non aveva più avuto notizie di lei. Ma non se l’è sentita di prenderla con sé, per paura di qualche ricaduta nella “stregoneria”. Così l’abbiamo riportata al centro». Mentre racconta Grégoire ci mostra alcune foto di Marianne, prima e dopo la cura, si stenta a riconoscerla. «Dopo qualche anno in cui sembrava star bene, Marianne ha perso l’uso della parola. Non sapevamo cosa fare. Avevamo scoperto che aveva 6 figli, ma non li vedeva da anni; allora sono andato a cercarli e ho mostrato loro queste stesse fotografie: si sono messi a piangere, la credevano morta, inveivano contro lo zio che li aveva tenuti all’oscuro di tutto. Io l’ho difeso, le famiglie vanno aiutate e incoraggiate a restare unite. Due figli di Marianne sono venuti via con me per incontrarla. Quasi subito lei ha ritrovato la parola. E’ stata la potenza dell’amore. Nessuna medicina avrebbe potuto fare tanto».
Grégoire ci saluta con un messaggio per tutti i volontari AVO: «Attraverso l’amore voi avete un grande potere nell’aiutare gli altri. Siate felici di questa vostra missione».
Stefania Garini AVO Torino
Per approfondimenti:
“Grégoire. Quando la fede spezza le catene” di Rodolfo Casadei, Emi 2018