La chiameremo Vera…
La guardo dalla porta della stanza numero 7, reparto di medicina, ospedale Santo Spirito, Roma.
L’ho sentita gridare. Gli infermieri mi hanno detto “La lasci stare, non capisce, abbiamo dovuto legarla perché si strappa le flebo …”.
La guardo e cerco di capire che cosa potrei fare. Anche da qui vedo che è bellissima, giovanissima, molto agitata. Cerca di strappare i polsi legati alle sbarre e, nello sforzo, spinge forte con i piedi per staccare il bacino dal letto. La bella testa si gira di qua e di là, dalla gola esce un lamento straziante. Mi ricorda un cucciolo appena finito nella trappola di un bracconiere. Che cosa aspetto inchiodata sull’uscio?
Io, forse, ho un po’ paura. E se mi avvicino e non so che cosa fare? Oggi ho almeno altre 3 persone che hanno bisogno di aiuto … e questo è il mio alibi bello e pronto.
Mi avvicino alla ragazza “che non capisce”, le sfioro la mano bloccata dalle bende usate come catene e subito sento la sua stretta forte che si aggrappa alla mia mano. Si gira, mi guarda, le sorrido, mi sorride, i lunghi occhi da cerbiatta, mi apre il cuore in due e ci s’infila dentro. Ed è tutta qui la nostra piccola storia.
Di lei adesso so il nome che naturalmente non è Vera, amo il suo sorriso dolce e il suono della sua voce, so che ha 30 anni ma che è come se fosse una bimba piccola piccola, so che le piacciono tanto le carezze e che, quando la tocco sulle braccia, sulle gambe, l’accarezzo sulla fronte, ride felice come una neonata sul fasciatoio. So che parla l’inglese e forse il portoghese, che quando ride le sale un delizioso gorgoglio dalla gola e quando canta tutta la stanza, tutti i letti sembrano volare sul canto di un usignolo.
Il tempo vola ed ecco che arriva un chirurgo dal piano di sopra. Naturalmente mi allontano.
Invece, dopo pochi minuti, un’infermiera viene a chiamarmi perché: “il chirurgo vuole che lei stia accanto alla paziente che non capisce”.
Adesso intorno a Vera ci sono i due medici, un ecografo e due infermieri che dovrebbero tenerle le braccia e le gambe bloccate. Il team deve riuscire a infilare un catetere venoso nel suo braccio sottile. Vera è terrorizzata.
Per me è un’assoluta novità essere chiamata a questo compito eppure mi muovo come se non avessi fatto altro nella vita. Mi piazzo vicinissimo al suo viso e le parlo. Sottovoce, molto sottovoce, di tutto e di niente, è una cantilena che la calma e l’accoglie. In un minuto ho la sua bella testa appoggiata sul mio braccio. Mentre i medici rovistano nella sua carne, le sussurro cose dolci, le dico che è bellissima, e bravissima. Che c’è il sole, che il cielo è blu, lei mi dice che sa volare, che le piace cantare. Mi chiede se posso cantare per lei. Allora scopre che sono stonata e questo la fa tanto ridere. A tratti arriva il dolore che le strappa un lungo profondo lamento. Poi Vera inizia a cantare canzoni che io non conosco ma che devono essere famose visto che alcuni del team le accennano insieme a lei.
Temendo il mio silenzio e il suo dolore, cerco disperatamente nella memoria una canzone facile e mi viene fuori una ninna nanna. Tutto serve, penso, mentre mi accorgo che l’intervento non va come dovrebbe. La sondina entra ed esce dal braccio di Vera ma non trova la strada. I minuti scorrono lenti come ore. E adesso che m’invento?
Mi soccorre un altro medico arrivato da poco e che parla inglese ma che soprattutto canta benissimo! Ed eccoci lì tutti a cantare intorno a Vera, a coccolarla, accarezzarla, a prendersi cura del suo corpo malato, tutti in qualche modo in contatto con la sua anima bambina.
Questa è la vita bella del volontario ospedaliero: ricca di sorprese e di amore.
Antonella Vitale – volontaria presso il Reparto di Medicina interna e Geriatria nell’Ospedale S. Spirito in Sassia di Roma