Intervista a Maria Cristina de Oliveira Machado
Presidente Regionale AVO Toscana

Mi chiamo Maria Cristina de Oliveira Machado, nome scelto dal futuro padrino e cognomi di mia madre e mio padre con cui sono stata registrata all’anagrafe del Comune di Lisbona, dove sono nata il 22 novembre del 1948.

Se qualcuno si domanda perché mi conosce come Machado de Oliveira, è presto detto: essendo diventata italiana per matrimonio e dunque titolare di rispettiva carta di identità nel lontano 1974, l’anagrafe del comune di Campi Bisenzio ha stabilito che, per seguire correttamente le procedure, doveva inserire direttamente dopo il nome il cognome di mio padre e soltanto dopo quello di mia madre.

Va bene, direte voi, è lo stesso, no? Lo è per l’Italia ma non per il Portogallo dove con la mia carta d’identità italiana risulto una persona diversa da quella della carta d’identità portoghese! Per evitare confusioni dovrei farmi rimettere nell’ordine corretto i cognomi su tutti i documenti italiani, compreso il codice fiscale…  Non ci penso proprio! E poi, non si sa mai, la doppia identità potrebbe farmi comodo in futuro …

Mi  sono laureata in Filologia Romanza (l’equivalente di Lingue Moderne neolatine) all’Università di Lisbona nel 1971 con la prima tesi scritta in italiano su Angelo Poliziano, per la cui stesura avevo passato otto mesi a Firenze. E, galeotta l’occasione, ho approfondito la conoscenza con il mio futuro marito, fatto che mi ha portato a ritornare in Italia dopo la laurea come Lettrice di portoghese dal 1972 al 1978.

Nel 1976 ho dovuto affrontare la lotta contro un cancro piuttosto aggressivo che nel corso dei successivi dieci anni ha comportato un peggioramento costante delle mie capacità motorie dovuto non tanto alla malattia quanto alla terapia radioterapica che avevo dovuto subire e alle rispettive conseguenze. Una sorta di conto alla rovescia che mi ha portato all’amputazione nel 1986 e al  successivo periodo di otto anni in cui, per problemi di difficoltà di cicatrizzazione del tessuto irradiato, non ho potuto usare una protesi di arto ma sono diventata molto abile nell’uso delle stampelle … Finalmente nel 1994 ho ricamminato su due gambe!

A maggio del 1998 sono stata ricoverata per circa due settimane, per accertamenti su disturbi ricorrenti di natura indefinita, in una camera con altre due pazienti, una molto molto anziana ma veramente gagliarda, nonna Rosa, e un’altra, Ada, più giovane ma molto depressa per un ricovero che si stava allungando senza ottenere risultati.

Una volta uscita dall’ospedale abbiamo continuato a sentirci al telefono ma i primi di ottobre ci siamo finalmente riviste e passato un pomeriggio insieme durante il quale Ada ha ribadito quanto la mia presenza avesse contribuito a farle sopportare così a lungo la degenza. Ritornando a casa, ripensavo alle sue parole dicendomi che forse avrei potuto aiutare qualcun altro che si trovasse nelle sue condizioni, ma come? Avrei dovuto cercare di sapere qualcosa sulle Associazioni di volontariato di Firenze, ma a chi rivolgermi? Perciò ho cercato di fare qualcosa per aiutare la mia vicina di letto, scherzando sui nostri rispettivi malanni non meglio definiti e coinvolgendola anche in giratine nel giardino quando il bel tempo sembrava invitarci. Una mattina, dopo tanti esami, il medico mi disse che avevano stabilito la causa dei miei problemi e dopo due giorni di prova dell’efficacia della medicina che avrei iniziato a prendere subito, mi avrebbero rimandata a casa. A questo punto la mia nuova amica si rivolse al medico chiedendogli di non farlo fin quando non potesse andarsene anche lei dato che, diceva, non aveva firmato per andare via prima soltanto per l’aiuto che le avevo dato in quei giorni. Quella stessa sera presi in mano il giornale che mio marito aveva sfogliato frettolosamente e lasciato tutto spiegazzato su una poltrona ed il mio sguardo cadde su un trafiletto che annunciava l’inizio del 35° Corso Avo di formazione per nuovi volontari quel pomeriggio alle 17,30. Mi è sembrato molto più che una coincidenza, ma ero mancata al primo incontro e chissà se mi avrebbero accettata. La mattina dopo telefonai subito in segreteria e con grande gioia ho saputo che erano ammesse due assenze e dunque sarei stata in grado di frequentare il Corso. Così, quasi per caso…

Man mano che seguivo le lezioni capivo che quel volontariato sembrava fatto per me che avevo tanta confidenza con gli ospedali e le lunghe degenze ed anche che le informazioni e la formazione ricevute, la presenza di un Tutor durante il tirocinio, l’appoggio del folto gruppo di volontari sarebbero stati i collanti che mi avrebbero legata a quella Associazione. Quando al colloquio finale prima del tirocinio mi chiesero se consideravo questo volontariato come una rivalsa sulla mia malattia fui sicura di poter rispondere negativamente e di spiegare che lo consideravo come la risposta ad un bisogno reale ed effettivo che avevo potuto costatare di persona e che se avevo potuto aiutare Ada forse potevo provare a farlo con altri.

In quegli anni il tirocinio durava sei mesi, dopo i quali si diventava volontari e si poteva fare il servizio da soli. La mia tutor però ebbe un incidente dopo soltanto due mesi e, non essendoci altri a disposizione in quel reparto, iniziai prima del previsto. Il primo giorno da sola mi domandavo se ne sarei stata capace ma alla fine della mattinata ero veramente felice di esserci riuscita e due anni più tardi ne diventai la responsabile. L’esperienza fatta come paziente mi aiutò a svolgere il servizio e forse il mio handicap ha fatto sì che tutti, pazienti , medici e paramedici mi trattassero con molta gentilezza, quasi sempre…

In quel periodo ricominciai anche la mia attività lavorativa, come professore a contratto di portoghese presso la Facoltà di Lettere di Perugia. Eh sì, era lontano! Quando avevo lezione alle otto e mezza dovevo partire da casa poco dopo le sei, anche perché spesso c’erano la nebbia e le lunghe code durante il viaggio, e gli altri due giorni comunque dovevo partire un’oretta più tardi. Bisognava preparare le lezioni, le prove per gli esami trimestrali, correggerle, partecipare alle riunioni d’Istituto… Impegnativo ma gratificante.

Nel 2004 la presidente Rosanna Manetti chiese alla precedente responsabile del “mio” reparto e a me di partecipare come uditrici alle sedute del Consiglio Direttivo in vista delle elezioni del 2005. In una di queste riunioni venne discussa la mancata adesione di volontari di Firenze al progetto promosso da AFCV in collaborazione con l’Università di Milano di “Management del Volontariato” diretto alle associazioni, che si doveva svolgere presso l’Abbazia di Mirasole per cinque fini settimana consecutivi. Il corso era davvero interessante ma l’impegno era abbastanza gravoso: arrivo il venerdì sera per pernottamento, lezioni la mattina ed il pomeriggio di sabato e la mattina di domenica. Rivolto soprattutto ai giovani ma senza limite d’età per partecipare. Davanti al mio apprezzamento per il programma e al dispiacere per quello che consideravo un’occasione persa per quei volontari che potevano anche aiutare a gestire l’Associazione venni “caldamente” invitata a parteciparvi… A quel punto come potevo rifiutare? Il venerdì ritornavo da Perugia e dovevo ripartire subito per Milano, la domenica non ero a casa fino alle cinque del pomeriggio ma il corso meritò davvero tutti i sacrifici oltre ad avermi fatto conoscere tanti volontari che nel corso degli anni  hanno avuto ruoli importanti nelle rispettive Avo ed in Federavo, aiutati anche da questa formazione.

Nel 2005 Rosanna, rieletta Presidente Avo Firenze, mi ha voluta come Vice Presidente tenendo conto anche lei della frequenza di questo corso. Tutto sembrava andare per il meglio, ai corsi per nuovi volontari partecipavano tanti aspiranti, i volontari erano arrivati ad essere circa 800, io mi destreggiavo tra gli impegni  di lavoro a Perugia, il servizio, le riunioni di reparto, le riunioni del Consiglio. Ma alla fine del 2006 Rosanna ci comunicò che per problemi di salute suoi e di suo marito avrebbe dovuto rinunciare al suo incarico nel Consiglio suggerendomi, visto che dovevo assumere io il suo ruolo, di scegliere come Vice Presidente Anna Fibbi, allora consigliere e Coordinatrice dell’Ospedale di Santa Maria Annunziata a Ponte a Niccheri. Non ci conoscevamo benissimo perché io ero sempre responsabile a Careggi e ci vedevamo soltanto a qualche formazione permanente, alle riunioni del Consiglio, ai mercatini di Natale dell’AVO. Credo che quello sia stato il momento più difficile del mio percorso. Con tanti dubbi ed incertezze, qualche notte di insonnia e la comune decisione di svolgere questo incarico come una sorta di Presidenza condivisa che prevedeva la collaborazione totale e fattiva che ci permettesse in caso di bisogno di essere “intercambiabili”, abbiamo iniziato questa nuova avventura in Avo a gennaio del 2007. Io, infatti, ero diventata Presidente senza essere mai stata Coordinatrice, Anna non si sentiva in grado di affrontare al meglio i problemi di gestione dell’Associazione perciò  le nostre competenze messe insieme si sono dimostrate la soluzione ideale che rispettava anche quell’ideale di collaborazione e intesa che chiedevamo ai volontari, che hanno apprezzato questo “modus operandi”, anche se nel Consiglio qualcuno non lo condivideva.

Un anno e mezzo più tardi siamo state elette per il triennio 2008-2011 e credo che la nostra visibile intesa ed amicizia, che non sono mai state incrinate da disaccordi o momenti di tensione, abbia contribuito a stabilire un clima di maggiore collaborazione all’interno del Consiglio e tra la maggioranza dei volontari. Al momento delle elezioni nel 2011, però, Anna ha dovuto rinunciare a parteciparvi per motivi familiari che non le permettevano la necessaria disponibilità di tempo. Quando fui rieletta, con il suo intuito e la conoscenza diretta delle volontarie che prestavano servizio nel Ospedale dove era stata Coordinatrice, mi consigliò di proporre a Maria Grazia Laureano, appena eletta in Consiglio, di diventare Vice Presidente. Questo suggerimento si è rivelato azzeccato perché anche tra di noi si stabilì una bella intesa che ci ha permesso di affrontare occasioni impegnative come la IV Giornata Nazionale Avo nel 2012 a Firenze e alcuni problemi sorti durante questo mandato.

Alla fine del 2013, durante gli ultimi mesi del mio mandato avevo assunto anche la Presidenza della AFCV per permettere a questa Associazione di superare la situazione di stallo e pericolo di scioglimento che si era venuta a creare. Nel 2016, con mia grande soddisfazione, Clotilde Camerata diventò la nuova Presidente, incarico riconfermato alle elezioni del maggio scorso.

Io, invece, che avevo detto di volere lasciar perdere altri incarichi ed essere una semplice volontaria, cosa ho fatto?  Sono subito diventata Presidente dell’Avo Regionale Toscana, nel momento di un profondo cambiamento nella gestione di questa Associazione, che passava da un Consiglio Assembleare ad uno Direttivo composto da cinque membri eletti dai Presidenti locali. Anche in questa occasione mi sono domandata se ne sarei stata capace ma ho deciso di accettare perché conoscevo bene tutti i Presidenti locali, avevo fatto lezioni in molti dei loro corsi di formazione e confidavo nel loro aiuto per superare le difficoltà del compito così come nella collaborazione preziosa degli altri membri eletti. Un Presidente regionale, però, deve anche riuscire sia ad essere la voce di Federavo presso le Associazioni locali sia a trasmettere i desiderata e le delusioni o i malumori delle proprie Avo al Consiglio delle Regioni, dove il confronto con gli altri Presidenti diventa una formazione fondata sull’esperienza sul campo, e può portare alla presentazione di proposte di interesse comune al Consiglio Direttivo. Credo, infatti che questo sia il ruolo principale dei questo Consiglio.

La situazione sia nelle strutture che nella società è senz’altro profondamente cambiata in questi anni e anche il nostro servizio si è evoluto e adeguato. Basta pensare alla possibilità data a familiari e visitatori in generale di accedere ai reparti della maggior parte delle strutture in un orario compreso tra le 12 e le 21, alla drastica riduzione della durata delle degenze, al fatto che adesso non siamo solo presenti nelle corsie dei reparti di medicina o chirurgia ma svolgiamo il nostro servizio anche in pediatria, in psichiatria, nelle accoglienze, nei DEA, nei diurni oncologici e nelle dialisi, nelle cure palliative o negli hospice, perfino nelle rianimazioni o nelle pre-sale operatorie. Siamo usciti dalle corsie ospedaliere  per andare nelle Residenze Sanitarie e addirittura alcuni di noi negli appartamenti a bassa intensità psichiatrica o al domicilio di pazienti che alternano le cure a casa con il ricovero. Il nostro rapporto con i malati è diventato più superficiale nei reparti dove la degenza è molto breve ma più  significativo in quelli dove i pazienti ritornano periodicamente o soggiornano a lungo e nelle residenze dove diventiamo spesso l’unico contatto con il mondo esterno per chi non è in grado di muoversi o non ha familiari che l’assistano.  Il fatto di non imboccare più può essere pregiudizievole nel creare un legame  più profondo con i nostri interlocutori?  Era senz’altro un modo più immediato di stabilire un rapporto ma non può diventare l’unica strada per arrivare alla reciprocità che vogliamo raggiungere.

E allora, alla domanda sulla validità della nostra presenza di stanza in stanza nei reparti, soprattutto di medicina e chirurgia, diversi volontari risponderanno senz’altro che non ha più ragione di essere  ma io non sono d’accordo.  Dobbiamo senz’altro calibrare la nostra attività nei reparti secondo le reali necessità ma finché ci sarà anche un’unica persona sola per la quale diventiamo la presenza amica che può attenuare la solitudine e la sofferenza, credo che non possiamo smettere di esserci.

La nostra collaborazione con il personale potrebbe essere più mirata a pazienti specifici? Credo proprio di sì perché loro sono al corrente della situazione in cui si trovano i pazienti, sanno chi ha più bisogno di sostegno perché più fragile,  meno seguito dai familiari o semplicemente più ansioso. A Firenze c’è il servizio SOS, cioè la presenza dei volontari, richiesta dalla caposala o dai familiari, anche in reparti dove non si presta abitualmente servizio e magari in orari diversi dal solito, per periodi più o meno lunghi. Anche se presente in tutte le strutture viene soprattutto richieste all’Ospedale Meyer, dato che i minori non possono mai essere lasciati soli e spesso capitano bambini che arrivano da molto lontano o i cui genitori hanno altri figli da seguire e non hanno familiari vicini che possano aiutarli.

Si può ritenere corretto ed auspicabile un servizio che si allarghi al domiciliare  o a persone fragili non solo in Ospedale? Credo che tenendo presente lo scopo con cui il Professore Longhini ha creato l’Avo, cioè quello di fare qualcosa per il bene comune e il fatto che lui stesso diceva che bisogna andare incontro alle nuove esigenze e fragilità, l’Associazione debba  affrontare i nuovi “cammini”  adeguandosi alle nuove esigenze della società attuale senza per questo  scordare le proprie radici e tenere presenti le motivazioni che hanno portato alla sua creazione.

Ecco, le motivazioni. Penso che in questo momento di scarsità di nuove adesioni  ci sia bisogno di  fare un “ripasso” delle motivazioni  che hanno condotto i volontari a fare parte di questa Associazione e che sia compito anche del Consiglio Federavo, nella sua doppia veste di Consiglio delle Regioni e Consiglio Direttivo, aiutarli a farlo.

A cura di Marina Chiarmetta